MA TU CHI SEI – Bruno Arpaia

MA TU CHI SEI – Bruno Arpaia

MA TU CHI SEI – Bruno Arpaia

MA TU CHI SEI – Bruno Arpaia

“È come se progressivi e impetuosi blackout le cancellassero ogni ricordo, ogni conoscenza. Spazzati via grandi pezzi della giovinezza, della guerra, della sua famiglia, di suo marito e del suo lungo matrimonio, il fatto che io viva a Milano da più di trent’anni… Per fortuna, sono ancora momenti. Poi sembra recuperare qualcosa. Ma senza quei ricordi chi è davvero mia madre, adesso? Provo uno smarrimento, una devastazione, uno smisurato senso di perdita e di lutto, perché in qualche modo io sono anche i ricordi che lei ha di me.”

Una lettura a cui accostarsi con delicatezza. In silenzio, tacitando la voce, come a trattenere le parole dentro di sé, per farle prendere forma e immagine, colore e densità. Peso. In punta di piedi, se solo l’esercizio della lettura che tutto chiama in causa del nostro corpo ma no, i piedi no. O solo per via marginale. È un libro fisico, perché oltre all’oggetto libro è di corpo e di malattia che si racconta.

La malattia e il romanzo autobiografico.

Bruno Arpaia con Ma tu chi sei, edito da Guanda, racconta della malattia che ha colpito la madre – il morbo di Alzheimer – e il suo lento e inevitabile progredire, abbandonando la voce che gli è più familiare, il romanzo di fantasia, per abbracciare l’unica possibile, la sua intima, e accostandosi per questa via a quel genere che comunemente viene anche definito come romanzo autobiografico.

Il libro gravita sul rapporto figlio-madre. In qualche modo lui è il protagonista. E non solo per avere materialmente portato a termine lo scritto. Le incomprensioni, le difficoltà acuite dal progredire della malattia della madre, la decisone di lasciare la casa dove erano custoditi i ricordi di una vita per trasferirsi presso una RSA. Ecco, il passato rimane come un’ombra che aleggia, percorre in qualche modo, sulle riflessioni dell’autore. Su un dialogo che è fatto delle stesse domande, ricorrenti, che la madre pone al figlio e delle uniche possibili risposte. Di un tempo, quello della madre, che è un eterno presente, privo tanto dei ricordi del passato quanto di un futuro da immaginare e, per questo, da progettare.

Un passato che viene eroso, inghiottito, da quel buco nero che è la malattia. E in quel passato fatto di ricordi di vita vissuta, da cui la madre perde inevitabilmente contatto, scivola, si sgretola, l’identità stessa dell’autore in un grumo inestricabile fatto anche di vita raccontata e che lentamente si smarrisce nelle tenebre della malattia. Perché siamo la sommatoria di quello che abbiamo vissuto e anche di quello che di noi raccontano.

La prosa è asciutta, bandito ogni ricamo superfluo. La scrittura di Arpaia risponde a un’impellenza, come se un’urgenza si facesse strada nel suo animo. È quel senso acuto della vicinanza della fine che impone la sua voce all’autore. Una senso della fine acuito dagli anni della pandemia, dalla morte di amici cari, da romanzi progettati e rimasti lì, in attesa di tempi altri. La storia da scrivere era la sua storia.

E sarà attraverso questa dolorosa riflessione sul sé spogliato dai ricordi materni, da quello che è un naturale venir meno di ciò che siamo e pensavamo di essere stati, che Arpaia troverà slancio per collegarsi, connettersi, a quella dimensione sociale e politica – nel senso nobile del termine – con il tempo presente e i problemi che lo percorrono.

Il mito dell’identità e l’accettazione del cambiamento.

“Nessuna epoca è stata ossessionata e angosciata quanto la nostra dall’identità: personale, etnica, nazionale, linguistica, comunitaria, sessuale, e chi più ne ha più ne metta. «Si cerca l’identità» ha scritto Paolo Flores d’Arcais «come una volta si cercava l’anima gemella: per esorcizzare un vuoto, una paura, una solitudine. Un’assenza.»”

È la riflessione sull’identità a dare modo all’autore di trovare un punto di contatto che si irradia dal privato per giungere a una dimensione pubblica. Riconoscendo nell’identità una sua intima fragilità, vissuta e attraversata nel quotidiano dalla malattia della madre, ne individua i limiti perché costretta a reggersi sulla inevitabile corruzione a cui va in contro a causa dello scorrere del tempo. E ancora, se l’identità non è la risposta adeguata ai problemi che attanagliano la nostra società, la soluzione non può essere quella propugnata da chi invita a indossare corazze, innalzare labari e a rispolverare ideologie sconfitte dalla storia.

Interrogando la biologia che rivela il nostro perenne processo di trasformazione, il nostro essere “in divenire”, il nostro costante mutare “a prescindere”, Arpaia in qualche modo ci conforta invitando a pensarci come dei «con-individui», insieme di popolazioni di specie diverse, organismi complessi e cooperativi. Il senso di pericolo, di fine, che pervade il romanzo in qualche modo viene illuminato, trova una propria intima pace, nell’accettazione del cambiamento, assecondando la trasformazione e che percorrendo questa via sarà possibile comprendere e, perché no?, mettere mano ai problemi del tempo che ci è dato di vivere.

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